Kotel, l’ebreo ingrato e l’imbroglione

Kotel e l’ebreo ingrato

הכותל המערבי

(La sofferenza forgia,
è una grazia che ti apre alla comprensione della vita.)

per David

La bellezza deve possedere
la leggerezza dell’eleganza
quando si muove sull’esistenza
con la gentilezza affranta della vita
che conosce i misteri del piacere
e le mancanze delle assenze
in quel dolore caritatevole
che illumina di grazia anche la rabbia
tramutando ogni cosa in tesoro,
umanità, salvezza.

Il tuo imbroglio mi ha ferita, offesa, ma non uccisa.

Cara nonna Nicoletta

il tuo ricordo sa di rose secche
petali benedetti di maggese
raccolto in lino grezzo

tutte le tue preghiere per il mio a venire.

dove metterai il punto
la remissione ai miei peccati?

T’avrei scritto l’infinito
se solo avessi saputo
di calcoli esatti
di carattere binario

ma so solo tenere il tempo
di una vecchia canzone
e della tua ansia per ogni mia sregolatezza
da sedare col profumo di gelsomino
nella piaga dei seni costretti al cilicio di un bustino
che contenesse il pudore di ogni tuo abbraccio.

a Loredana

E’ un piccolo ristagno
quello che chiamano cielo
nel pugno stretto di chi nasce
nell’abbandono singolare di chi muore

quasi a dire che per vivere bisogna lottare
per morire basta lasciarsi andare

uno sciacquettìo di risa
dentro le pozzanghere nei vicoli di Londra
lì le mamme non fanno tanta scena
per un po’ di mud sugli stivali da pioggia

qui è stato sempre più complicato
il rapporto col tempo
trastullato nel sole caldo di mesi che
dalla fine dell’inverno ti riaccompagnano
in maniche corte alle porte del nuovo freddo

ogni anno sempre più freddo – dicono

ma è l’età che fa percepire con più fatica i mutamenti del clima
mentre quattro gocce di pioggia allagano le strade secche
e i tombini otturati dall’incuria di chi se ne frega del disagio cittadino.

Sono sempre quattro gocce d’acqua

quattro gocce d’acqua che sembrano lacrime
come quando te ne sei andata tu, Loredana,
e tutto era un vero lago di dolore

pensiamo di avere sempre la soluzione in mano
di essere i sacerdoti della giusta intuizione

ma non sappiamo nulla neanche di noi stessi
tanto da consentire al più idiota degli idioti
di turlupinarci come meglio crede

intanto le acque si colorano d’arcobaleno
e se un bambino ridendo ci zappa i piedi dentro
cosa vuoi che sia il freddo di ieri?
la pugnalata che riceverai domani?

è tutto un susseguirsi di nuvole come cavolfiori,
di agnellini e pecore che movimentano il cielo di fantasia
e bellezza

il peggio è qui
qui giù a terra
nel fango che rimane incrostato
alle scarpe buone.

 

la bellezza

la bellezza è una cosa tenue, leggera
quella delicatezza che china il capo
su un collo lungo delicato
quasi un dipinto dalle proporzioni sconfinate,
un Modigliani tutto occhi
o una fotografia di Brandt che proietta la lunghezza degli arti
nella prospettiva di una stanza
in gioco di penombra,
mentre una staticità silenziosa
costituisce la magia di un pensiero limpido
chiuso in una complice attesa
che non aspetta, non si chiede,
non cerca altro che essere

se stessa

dopo di me

Dedico a te – *amore mio –
ogni mia lacrima e i sorrisi
che mi hai donato
perché insieme alle piume dei miei angeli
si facciano asfalto di cristallo e ovatta
per accompagnare il tuo cammino
dopo di me.

 

*amore mio è riferito a mio marito, ma anche a mio figlio e a tutte le persona che amo. La poesia è preghiera, la forma più pura e naturale per pregare.

Volere il Bene dell’altro, la maniera più concreta per avvicinarsi a Dio.

quarto stadio – testamento

a te

Ogni elemento qui si fa presagio
Ampiezza
dopotutto la distanza è misura
dello spazio in cui presumere il Tempo
– “diciannove mesi”, presunzione
spaziata palmo a palmo: prigione,
cura, permanenza per coprire
l’intera corsia che una probabilità
giunga a farsi punto d’incontro, stazione
in cui decidere se arrivo o degenza
facciano di noi scintillio di un’effimera
appartenenza o, più semplicemente,
infutura coscienza che oggi
è l’agio di un azzardo,
domani solo una scommessa.

*

ho viso, occhi e seni,
cosce, parole e baci
che non sanno più dove andare.
La felicità
[così densa, così innaturale]
è un sintomo della fine insostenibile
come una biscia da estirpare.
Abbiamo avuto sedie,
scatole vuote di finestre e tramonti
[carne di parole]
ma la profanazione di una casa vuota
si legge nel silenzio delle dita
quando registrano la pesantezza del dono
nel tonfo di un oggetto mentre cade
e tutto appare distante
come un film che non ci appartiene
un ralenti che accelera e riprende fiato
sul motivetto di un pianista d’occasione
ma la bellezza è tutte quelle cose
che conservo nelle parole che non sono più mie
[lo fossero mai state]
perché morire non è che un lento conservare
una breve traccia da lasciare.

*

avrei voluto, dove la nuca
si apre convessa alla materia
dura del giorno – lì –, scrivere
la delicatezza della pioggia
e l’ostinazione di una rosa.
L’inverno

*

ti nascondo dentro nuvole di cotone
batuffoli per l’acquasantiera]
quasi fossi la benedizione della pioggia
che scioglie le zolle alla mia terra

Le bombe sono state riempite di chiodi
per infliggere il massimo del dolore
per amplificare la misura del danno
la dottoressa spiega che la presenza di quei ferri
violentmente sparati
laddove non hanno ucciso, sono causa di pene per i sopravvissuti
del macabro rituale dell’amputazione di una parte di se stessi
la cattiveria che l’atto di terrore manifesta
non ha solo una connotazione da etichettare nell’ordine delle cose della guerra
o nell’ordine di una lotta per rivendicare
qualcosa di negato, l’origine di un sopruso.
questo orrore che si manifesta sempre
nella perpetrazione del male
mira a offuscare ogni equilibrio di ragionevolezza e considerazione
della pena che proviamo
per un bambino
per un milione di esseri umani
per un cane
per la ragione stessa del nostro vivere su questo mare
che si fa bara di speranze e disperazione.
la storia dell’uomo si basa sulla necessità
e la spinta del primo migratore
che nella ricerca di salvezza
ha tramandato la pulsione al miglioramento
alla crescita, alla sopravvivenza.
oggi assistiamo all’inseminazione del male
per mezzo del terrore
un terrore che genera terrore, un terrore che infetta
la capacità di distinzione, di critica partecipazione
alla complessa costruzione del bene comune.
non ho paura del terrorismo, perché esso è solo la traduzione
peggiore della volontà del male.
mi spaventa l’idea che io possa temere il terrore
senza accorgermi di ripercorrere le vie dell’odio razziale.

*

Questo e più di questo, che Nulla al cuore
può la tua assenza – Zenit di frontiera
alba Linea demarcata Affanno
fatica_mia Fosti – ieri più di Ieri
domani Forse che nulla più Questo
cuore può

*

non recupero le forze nelle fosse dei tuoi silenzi
ma nei tuoi respiri serpico
tra le sillabe che abbandoni in disordine per la stanza.
Ed è come rammendare un calzino bucato
dal tempo e dall’usura
da un’unghia troppo lunga
che s’incunea nei lembi della carne.
É un rattoppo per suturare sdruciture
questo disordine che mi sfugge
per consumarsi inchiostro su un taccuino.

*

Non è più tempo, non siamo noi nel tempo,
perchè Noi non esistiamo,
non ci siamo mai stati né mai ci saremo,
quando di noi resterà solo un pronome che
senza i nostri occhi, la nostra pelle, le nostre ossa,
troverà spazio davanti alla definizione temporale di un’azione
noi – Noi – non saremo che la coniugazione di un inganno reale,
un desiderio fuori tempo, fuorilegge.

*

[dovremmo fare in modo da aprire questa bocca
e infilarci dentro il senso di una lingua nuova
come una parola scritta per dar luogo
al non detto ancora
____________________ e
vivere così, tra le parentesi
quadre di un attimo di quiete Non vedere
oltre L’inizio e la fine di ciò che sarebbe
La distorta prospettiva di un qualunque persempre.
Essere solo una parola, fuoricontesto.]

*

dove sarà la parola
rinchiusa in queste mura?
Una finestra è quanto appare
di ciò che non ci appartiene.
Eppure
non sarebbero bastati mille anni
per dirci le cose senza vita

che poi,
supponendo l’aurora sopra i massi
e questo confine oltre la ringhiera
uno scintillio come si scrivesse il c i e l o
nella la parola v i t a
saremmo forse più liberi
che nel silenzio di questo vuoto?

*

Un’inconsueta lentezza nel latte al mattino
accompagna la pesantezza del pane duro a colazione.
Un senso di incompiutezza ricopre l’aria,
le signorine ortensie e la vecchia palma
colma di datteri sempre in offerta.
Si dice che l’amore si semini per sradicare le ortiche,
io vorrei rovi di parole per trafiggermi le labbra
e tentare una risposta all’ombra dietro la credenza
che minaccia la parete scoscesa nell’incavo della coscienza
sì che fosse normale che questo gelo invernale
s’intrecci alle vie d’un vecchio aprile:
“oggi è il diciotto” – nel trasalire al computo delle cose del reale –
_____________________ “ricordo bene il fiorire dei vetri
_____________________ colorati sui viali dello stupore
_____________________ privo della nostra consistenza”

*

Si incamminavano leggere le ginocchia
lungo una strada di ossa che non ha incanto
Non so ancora l’uscita di scena:
un soffio violento, un grido, una sfida
– Cos’è il presente tra le mole digrignate e il mio sgomento?
Si disfano i capelli e le unghie
Le ruote girano lente una musica angosciante
– Ta ta pàm ta ta pàm –
che si ripete Ancora e ancora
infinito avvertimento che indica il buio nel suo profondo
dentro convesso di un utero che non dà vita
– Cos’è il presente di queste ossa?
Non ho bisogno di cibarmi gli occhi
le mani ricordano il tuo viso,
il profilo si impara a memoria,
al buio.

*

L’elogio dell’incompiuto – 1.

il miracolo di quelle cose libere che si amano così,
così – quasi fosse
l’impossibilità di domare la pelle del mare,
o la riva del fiume quando devasta la saccenza
delle previsioni oltre l’abisso della sorpresa,
ma” è solo
[o_siamo] una parola che svolta
– dunque, eccoci: prossima scena:
il tavolino si allaga [dentro lo sguardo di una donna]
lui osserva. Si suppone che piovesse,
non è detto un pianto, si suppone ancora una sorpresa:
______ lei non chiese, lei non aspetta.
Ricapitolando, dunque:

C’era una donna, poi fu un seno
e più tardi ancora un piccolo ristagno
che chiamarono cielo
come il grido di chi nasce
nel silenzio di chi muore.

Si aggiunsero poi
un’unghia spezzata, lo smalto, pezzetti di memoria,
vetro colorato, calze a rete,
– si disse un tempo di una riga che saliva su per il polpaccio alla coscia:
__________________ un’ascesa al paradiso.

Di tutte queste cose libere è la natura terrena dell’amore
quando mima il suono dentro il petto
che sembra mio così pieno,
piccolo grosso, distrattamente andato
giù dabbasso al ventre maturo
– si disse un tempo: turgido, bianco, come qualcosa di incompiuto:

ma la natura distratta delle cose
è un equilibrio di terrena assoluzione,
la sorpresa per ciò mai saremo.

*

Avrei voluto scrivere una lettera
aperta come le A e le E
della mia pronuncia
aperta
come l’apertura alare
di un pensiero senza nido
quando in picchiata si libera
a precipizio
e avrei voluto essere regola fuori da ogni regola
per ricucire insieme la sintassi di tutte le lingue morte
che scompongono la bocca ai margini di meridione:

avrei voluto fare di ogni lemma
il punto morto
di ogni nuovo principio dopo la fine

*

nel firmamento dei pensieri
le cellule esplose del mio petto
tracciano la mappatura astrale dell’Universo
attendendo il ritorno turchino

la Legge delle leggi non ha prescrizione
mentre noi stiliamo liste di proscrizione
con le nostre mancanze fatte di sbagli e scadenze

ma il turbinio del terrore e la paura
quando la fissi negli occhi come una sentenza
generano un’energia eterna
che smuove le forze, fa vibrare l’Universo
con tutte le sue assenze irrisolvibili
e il pianto di tutte le grazie e le Madonne del mondo

tutto questo non genera miracoli, né costituisce intenzione di reato
ma ti impone di varcare ogni limite, camminando sul filo sospeso della scelta, del tuo condizionato arbitrio

allora quando questo mistero orribile e tremendo
ti entra dentro, vivendoti istante per istante
la storia s’inginocchia
il destino acquista una nuova marcia:
la consapevolezza estrema
di essere il poco che siamo

l’Amore nell’aurora dei diversi emisferi polari
ha già scomposto la sinfonia del suono
in una pulsar che ritma il battito
nel meccanismo fantastico del galleggiare senza peso
in un letto di fogli, memorie,
confondendo tutto, raccogliendoci nel tutto
con lo stupore di un luminoso abbraccio
mai ricevuto e un ricordo come testamento

*

Ogni giorno si ripete il massacro
Ogni ora è il ritorno turchino

Poserei gli occhi sui palmi
Per fartene dono
Come una Santa
Che non vede salvezza

Gioca un bambino
L’arto fasciato
È la misura del suo sorriso

[da quando penso a quella cosa
che hai scritto dell’aria – a P. Ḗluard

La forma del tuo cuore è disegnata nell’aria
E il tuo amore rassomiglia al mio perduto desiderio.
P. Ḗluard

la bellezza è una cosa tenue, leggera; quella gentilezza che si fa notare appena e spesso passa inosservata.
[da quando penso a quella cosa che hai scritto dell’aria,
non ricordo la pagina, il giorno o l’ora,
né il titolo di quella raccolta o il verso a seguire.
Non ho buona memoria, lo sai bene,
e faccio fatica riconsultando continuamente le nostre letture.
Che poi non si sa mai se voltando pagina
mi darai ancora quella leggerezza nella tua scrittura,
mentre qui la notte è pesante quanto un’assenza
che la bellezza turba con la tenerezza delle cose di ieri.
Ho provato a scrivere
ma non c’è altro che io possa inventare stanotte
se non la verità delle parole
da nascondere tra le pieghe a bordo pagina
come un segno distintivo,
[fisso
da mantenere integro ed intatto
per non svelare la dannata paura di essere persone
che abdicano alla ragione del tempo
lo spazio vitale in cui può mancare
la banalità di una persona da amare
nei suoi gesti ripetitivi,
come in tutte quelle cose che agisci
raccogliendo la noia dei fatti
nei riflessi speculari alle parole,
creando tutte quelle piccole storie
in cui darmi materia di arti e pensieri
sembra essere la sola possibile lettura
ai miei capelli d’arancia gialla
sulle labbra succose della sera.
– quasi fossi vera
in ogni tua parola ]

Se solo la mattina fosse solo un “appena mattina
con quell’ombra apparentemente leggera
che sfiora le veneziane, incerta
sulla natura del giorno e la dimensione della luce
ancora tutta da definire.

Se solo la mattina avesse la tua lentezza,
l’approssimarsi metodico al tavolo di legno
con la tazza raccolta nella mano
e il suo calore per agevolare la riflessione
sulla programmatica funzione del giorno.

Se solo tutto questo non fosse
che una banale scrittura di una ritualità comune,
sembrerebbe speciale
quanto l’angolatura della prospettiva di ciò
che per quanto normale,
nella necessità di coniare la parola “lentezza
da accostare a quell’approssimarsi
e alla metodica ripetitività della tua assenza,
concretizza la mimesi di ogni mio mattino
al battito della tua esistenza, quasi che io,
per qualche strana misura, vi appartenga.

Before the flood, 10

la Dimora del Tempo sospeso

Immagine di Michele Guyot Bourg

James Harpur

      Il tuffatore di Paestum

      Dipingi questo sarcofago di pietra
      Con scene del mio convito funebre.
      Raduna i miei compagni d’un tempo
      E ponili sopra letti morbidi.

      Fa’ che il vino sciolga loro la lingua
      Carezza le carni dei loro efebi
      Succhia a baci dai flauti melodie
      Trai armonie pizzicando le lire.

      Tutto mi son lasciato dietro.
      Scorie di vino mi impastano la lingua
      La musica fa stridere il silenzio
      E pelle sulla pelle mi disgusta.

      Dipingi tinte ricche e veritiere
      Fa’ che la sensualità colori
      Questo sepolcro gelido ed ascetico –
      Ad eccezione dell’interno del coperchio:

      Qui fai vedere l’oceano sconfinato
      Uno o due alberi con rami come felci
      La sagoma di un trampolino;
      Che tutto sia essenziale e delicato.

      E raffigurami senza veste alcuna
      Un’anima nuda in volo e rilucente
      Che attraverso la mia vita sensibile
      Si tuffa nelle acque dell’oblio.

    Traduzione di Francesca Diano

    (continua a…

    View original post 2 altre parole

    “La curva del giorno” di Biagio Cepollaro, Una vita possibile fuori dalle righe della storia

    perìgeion

     Di Christian Tito

    38

    (Fotografia di Dino Ignani)




    Mentre nell’estate a tratti torrida impazzava l’ennesima discussione sulla morte della poesia nel nostro paese, rinfrescavo mente, spirito e corpo attraverso la terza lettura di un libro che mi fa sorridere e pensare che la poesia invece non è morta (e mai morirà) e, in alcuni casi, gode di ottima salute.
    “La curva del giorno” di Biagio Cepollaro, libro uscito a inizio anno per L’Arcolaio, è, secondo me, un libro che si discosta profondamente dai canoni della poesia italiana contemporanea sia in senso formale che in merito ai contenuti.
    Non sono in grado di formulare un’analisi accurata di ciò che rappresenta all’interno di tutta l’opera di Cepollaro perché sono un lettore affamato e onnivoro ma anche molto disordinato e del poeta originario di Napoli avevo letto stralci di libri attraverso la rete mentre questo è il primo che ho gustato sulla carta e…

    View original post 2.907 altre parole

    Storie di Damiano Sinfonico

    perìgeion

    STORIE

    di Amara

    Una delle cose che mi ha più colpito, leggendo Storie,  l’opera prima di Damiano Sinfonico edita da L’Arcolaio, è che sono storie senza età, non  generazionali  ed è per questo che, anche  se  l’autore è giovane e io non lo sono più, ho potuto sentirle e farne parte.

    Il tono del suo verso  è spesso descrittivo eppure, forse per la brevità dei componimenti, non suggerisce noia né eccessiva personalizzazione, ma riesce ad essere perfettamente propedeutico al punto focale, al senso, quello che ognuno sente di dare. Anche il ritmo, pur non avendo una particolare musicalità, scorre fluido e piacevole.

    Sono testi pacati che, pure in densità, sanno farsi ascoltare sottotono e avendo avuto il piacere di incontrare l’autore, sembrano non essere figli di alcuna forzatura, davvero simili alla voce di chi li ha scritti.

    Per una nota più precisa sulla poetica cito il prefatore Massimo Gezzi…

    View original post 528 altre parole

    Rosaria Lo Russo, Nel nosocomio

    perìgeion

    rosarialorusso-10

    di Roberto R. Corsi

    La società produce paura, la paura catalizza il desiderio di sicurezza, il desiderio di sicurezza genera l’opportunità etico-economica di meccanismi di salvaguardia doppiamente “esclusivi” – isolanti e basati sulla solvibilità; segue una fase di appagamento; poi improvvisamente, per la stessa logica etico-economica, dal nosocomio si scivola, tra vane resistenze, nel dormitorio.
    Il sistema binario nosocomio-dormitorio (nient’altro, quest’ultimo, che la nostra cruda destinazione) è all’inizio del libro luogo allegorico, poi non-luogo nella misura in cui non crea identità relazionale ma ospita un coacervo di individualità in transizione (un gruppo basato più che altro sull’arrangiarsi e sul si salvi chi può). Per finire con la terza sezione, efficacemente definita “Spoon River glocalizzata”, attraverso la quale, tra elegie funebri via via grottesche glaciali o dolci, viene svelato il già evidente, ossia l’identità tra costruzioni fantastiche e (in-)civilità contemporanea.
    Dopo la prima uscita nel 2011 e alcuni inediti fatti circolare…

    View original post 1.640 altre parole