#9 – i giorni perfetti

“Dove vanno a finire i personaggi di un film ancora da girare? Qualunque pellicola immagini, l’umano è sempre in agguato con le sue gabbie da raccontare.”

Davide sapeva che non poteva tornare, la scena era ormai cambiata, il regista gli stava riscrivendo ruolo e partitura. La sua canzone tra memoria e compiacenza avrebbe dovuto occultare la scena precedente in una pozza di sangue, ma il sangue di Elvira aveva una dolcezza particolare, che s’intonava all’incarnato bianco, facendo risaltare la passione in un balbettio di reminiscenze.
Elvira aveva portato a termine i compiti, chiarito la sequenza delle scadenze.  In poche parole la madre era soddisfatta, era riuscita nel suo borghese intento di incastrare la figlia nel ruolo anonimo del suo salotto: un personaggio scomodo come Davide non avrebbe più dovuto varcare la soglia delle fantasie della sua prediletta complice di ruoli e reclusione. “Davide doveva evaporare”.

Ma la staccionata oltre cui saltare per correre fuori dal bosco fin dentro i chiari profondi della luce che filtra i rami, era un lavoro sottile che solo il libro di una matta filosofa spagnola poteva indicare.
Fu così che Elvira sopravvisse nella sua pozza di sangue, dentro quella scena occulta e tragica, che all’ora dell’alba spezzò gli equilibri fragili della mente malata della madre. Non avvenne così il suicidio, non avvenne neppure l’omicidio, non realmente s’intende.Continua a leggere…

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#8 brevi sceneggiature

La cura del dettaglio gli richiese una lunga scenografia meditativa. In fondo sapeva bene l’orgasmo segreto e intimo delle plausibili possibilità, che il vaglio minuzioso di ogni scarto di luce e ombra, di ogni parola, di ogni impronta, oggetto, traccia, lasciata e disseminata quale volontario e cosciente indizio, avesse la sua fondamentale importanza per l’esatta riuscita dell’uscita di scena: una caccia al tesoro, un gioco bambino di tenera crudezza, puerile cattiveria.
Dipartire in fondo è come punire, è chiudere la coscienza dell’altro dentro lo sgabuzzino buio dei peccati e dei ripensamenti: una sorta di omicidio sottile. Crudele.
Prevedere tutto o, per lo meno, illudersi di saperlo fare, era l’eiaculazione cerebrale che lo accompagnava nella consapevolezza mista al compiacimento del dolore proprio alla ragione.
I suoi pensieri si sedettero dinanzi allo scrittoio che non fungeva da scrittoio, con le mani che reggevano le tempie, il viso basso a fissare il legno. Ogni scena delineava un’espressione sorda: capitolò un sorriso, seguì una lacrima.
Non si pentiva di saper piangere, anche se lo nascondeva per pudore, con la consapevolezza che la forza di quel gesto così intimo, nelle prime ore dell’alba, avrebbe rintuzzato il ticchettio del tempo, rendendolo qualcosa di presente ed estraneo, cui comunque avrebbe dovuto decidere di dar conto.
Vagliava il caso, senza lasciare che nulla gli appartenesse realmente.
Finché la luce non si fece ferita netta tra le tapparelle e il ripiano su cui aveva giocato la sua immaginaria dipartita, ricordandogli che era tempo di sbarbarsi, indossare il volto d’occasione e rimandare alla prossima intimità la continuazione della sceneggiatura della fine. –

7# Gloomy Sunday

Vorrei appendere tutti i miei volti a scolare l’acido che la delusione ha inciso nel mio sguardo. Guardami col distacco della leggerezza prendere forma nell’immagine di me stesso, con tutte le sbavature di una nuova consapevolezza. Essere l’osservazione fredda del dolore che concepisce se stesso nell’arte della separazione, l’abbandono prepotente di me a ogni cosa: un incanto.
Ci saranno letti di viole, mille quadrifogli a segnare la fortuna che non ho posseduto, parole bambine e stecchi di zucchero filato.
Il paradiso a mezzo fiato, il purgatorio purgato.

Sognando, stavo solo sognando, Gloomy Sunday.

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#6 la madonna nera

Santuario di TindariNon so esattamente cosa mi spinse ad addentrarmi in quella terra arida, così diversa dal biancore della mia pelle tutta imbibita di cortisonici, ma fu la prima cosa che feci appena uscito da quel ricovero forzato. Ne avevo sentito parlare in quei giorni di degenza come meta per i pellegrini in cerca di grazia, tuttavia, la ragione del mio viaggio aveva radici diverse dalla necessità d’intercessione col Padreterno e dalla fede, che peraltro non mi avrebbe mai illuminato. Ciò che mi incuriosiva al punto da decidere che sarebbe stata la prima cosa da fare con ancora il bagaglio appresso e l’odore di anestetici addosso, era l’idea della spiaggia sotto la rupe su cui capeggiava l’immaginetta di una madonna nera con le braccia aperte e uno sguardo triste, che mi aveva mostrato un compagno di stanza nell’ora del suo quotidiano recitare vespertino. Era un uomo mite, silenzioso, di una fede riservata e misteriosa, poco invadente, rara in questo senso. Ne percepivo il pregare a voce soffocata, rotta dentro un silenzio fatto di sguardi e paure, ma anche di speranze cui aggrapparsi tenacemente.
Così appena presi il primo respiro d’aria sufficientemente profondo da risvegliarmi polmoni, odori, pensieri e rimettere insieme obiettivi e ricordi, decisi che per prima cosa avrei imbucato la scorciatoia sulla destra dell’Ospedale Civico, che mi avrebbe condotto, su indicazione di un solerte infermiere, direttamente nella traversa alle spalle della Chiesa Maggiore, dove avrei trovato la sede di una piccola agenzia viaggi che, nonostante la crisi di settore, continuava a vivacchiare organizzando piccoli tour con mezzi di trasporto sgangherati nelle zone limitrofe alla città: due famose mete di svago e una destinata al pellegrinaggio di fede e dolore. Non appena varcai la soglia della MFTA, Manitta e Figli Travel Agency, un piccolo tugurio a gestione familiare, la mia attenzione fu subito rapita dalla voce di un vecchio barbuto che, dalla stanzetta sulla destra della biglietteria, urlava prendendo accordi telefonici di orari e partenze conditi da insulti e benedizioni. Solo in seguito notai una giovane donna corpulenta e priva di espressione che, chiusa nel gabbiotto a vetri della minuscola biglietteria, chiedeva meccanicamente quale fosse la destinazione del viaggio, riferendo costo e orario di partenza, arraffando avidamente i soldi e restituendo il resto senza aggiungere una parola o un sorriso, che rivelasse un minimo di umana partecipazione all’azione che svolgeva.Continua a leggere…