“Dove vanno a finire i personaggi di un film ancora da girare? Qualunque pellicola immagini, l’umano è sempre in agguato con le sue gabbie da raccontare.”
Davide sapeva che non poteva tornare, la scena era ormai cambiata, il regista gli stava riscrivendo ruolo e partitura. La sua canzone tra memoria e compiacenza avrebbe dovuto occultare la scena precedente in una pozza di sangue, ma il sangue di Elvira aveva una dolcezza particolare, che s’intonava all’incarnato bianco, facendo risaltare la passione in un balbettio di reminiscenze.
Elvira aveva portato a termine i compiti, chiarito la sequenza delle scadenze. In poche parole la madre era soddisfatta, era riuscita nel suo borghese intento di incastrare la figlia nel ruolo anonimo del suo salotto: un personaggio scomodo come Davide non avrebbe più dovuto varcare la soglia delle fantasie della sua prediletta complice di ruoli e reclusione. “Davide doveva evaporare”.
Ma la staccionata oltre cui saltare per correre fuori dal bosco fin dentro i chiari profondi della luce che filtra i rami, era un lavoro sottile che solo il libro di una matta filosofa spagnola poteva indicare.
Fu così che Elvira sopravvisse nella sua pozza di sangue, dentro quella scena occulta e tragica, che all’ora dell’alba spezzò gli equilibri fragili della mente malata della madre. Non avvenne così il suicidio, non avvenne neppure l’omicidio, non realmente s’intende.Continua a leggere…