prose da “Il volto perfetto della morte”

[ogni addio necessita un taglio netto
 un’incisione acuta
 la traduzione di uno stato d’ansia
 che s’arrota le lame in silenzio]

Prepararsi alla fine è un atto di misericordia terrena.

I.

Pensiamo alla malattia come fosse qualcosa di estraneo ed esterno a noi: una minaccia, una iattura o, comunque, come qualcosa che mai dovrebbe intaccare l’ordine perfetto dell’abitudine del nostro vivere; ma la malattia non è altro che il vivere stesso, parentesi o direzione finale del viaggio, essa è anche occasione di luce e ridimensionamento delle cose nell’abisso della consapevolezza del nostro termine. C’è tanta beatitudine da scoprire nell’interazione delle cose e degli eventi con la parte più umana e fragile del nostro corpo e delle sue limitate funzioni animali. Scoprire la felicità irriducibile della sopravvivenza riporta a uno stadio di libertà ferale che, nell’immanente, riconosce lampi di numinosa trascendenza. La sofferenza è un’esperienza da accogliere come occasione di umana salvezza.Continua a leggere…

Pubblicità

Zoccolino

*per la mancanza di un tè e una fetta di torta
il vecchio morì*

Us and them – Pink Floyd

Morì a novantotto anni, dignitosamente, senza troppo rumore. Una morte solitaria, di quelle morti che generano un piccolo parlare tra le scale di un portone e l’angolo del bar del quartiere, senza superare la soglia del negozio del fioraio, dirimpetto ai gradini freddi del Sagrato di Via della Mercede, cinta dai palazzetti bassi dell’oratorio e del collegio dei salesiani. A chi poteva mancare un vecchio pazzo che raccattava cianfrusaglie in un appartamento umido e poco arredato all’ultimo piano sottoterrazza di un palazzotto di Via Argentieri?Continua a leggere…

the lake

Il lago aveva una nitidezza particolare. Sarà che dopo la pioggia tutto assume una trasparenza consistente, quasi palpabile nel decifrare specularmente la natura morfologica del suo riflettere, ma la sensazione che dal lago oggi si diramava tra le cose, gli oggetti, i visi, le botteghe dei pescatori, il negozio del pane, era che ogni cosa fosse lì per assolvere una solenne restituzione:
smussare angolature e perimetri per coglierne l’esatta distorsione tra ciò che appare e quanto potrebbe realmente, o idealmente, essere.
Oggi il lago era la mimesi di ogni plausibile realtà nella liturgia del suo silenzio.

Carfagnate e qualche precisazione

bottoA sentenza pronunziata a carico del sig. Silvio Berlusconi, come previsto, assistiamo al susseguirsi di dichiarazioni e prese di posizione dell’apparato politico del PDL.
Tentando di osservare la vicenda con il necessario distacco dello scrittore, l’immagine che mi si restituisce è quella degli scarafoni dopo la vaporizzazione del DDT sulla loro tana: uno scomposto muoversi di scatto, senza colpo ferire, senza meditazione, un moto istintivo di sopravvivenza. Ma tornando ai fatti, la sentenza è arrivata come un botto annunciato, un gioco d’artificio che, per quanto atteso, scuote con la forza del suo tuonare e l’imbarazzo delle sue tante luci colorate, lì nel buio tutte insieme. E da quelle luci, nude nel buio, sembrano fioccare le dichiarazioni, tra premeditazione apprise par cœur [imparata per tempo a memoria] e stizza contenuta con mal celata difficoltà.

Ne prendo una dal mucchio, quella che più di tutte mi interessa commentare, un po’ perché a rilasciarla è una donna, una delle donne simbolo dell’apparato governativo dell’ultimo ventennio; un po’ perché nella sua ipocrisia (ipocrisia del messaggio, l’equazione eventualmente mi potrebbe appartenere intimamente e non sarebbe dunque sindacabile non essendo esposta per iscritto) dice due cose gravi, gravissime:
in primo luogo perché sono una distorsione della verità e
in secondo luogo perché minimizzano un reato, fino a sdoganarlo totalmente, come la marachella di un bambino, cui non si può non perdonare anche col sorriso, di aver infilato le dita nella torta in piena festa.

Dunque andiamo a noi e leggiamo una delle affermazioni della Carfagna all’arrivo della notizia della condanna del capo del suo partito, sig. Silvio Berlusconi:

“Grande amarezza e stupore. Questo è l’epilogo di una lunga guerra, durata 20 anni, di una piccola parte della magistratura contro uno dei più grandi leader politici italiani, che è anche uno dei maggiori contribuenti. Fa stupore pensare, infatti, che una persona possa evadere il fisco per pochi milioni di euro quando ne versa alcuni miliardi”
Mara Carfagna

Sorvolando sull’uso improprio del termine “guerra”, oggi usato eversivamente e, mi si passi, anche in modo grossolanamente drammatizzante dal sig. Sandro Bondi, ciò che mi preme dunque rispondere sinteticamente alle affermazioni della signora Carfagna è che il sig. Silvio Berlusconi paga sì le tasse per un ammontare annuo pari più o meno a 450 milioni, relativi a proventi noti, accertati e “alla luce del sole” a suo nome, proventi quindi “non evadibili” in quanto non si può sfuggire dal pagamento degli stessi, purtuttavia bisogna aggiungere a questa mera constatazione dei fatti, un altro fatto non meno rilevante, ovvero che la condanna pervenuta ieri riguarda solo i due anni di evasione sotto processo che non siano caduti in prescrizione, pertanto la cifra che si considera evasa non riguarda un trentennio o più di attività imprenditoriale e politica, ma solo i due anni “sotto processo” anche se il meccanismo evasivo ricopriva un lasso di tempo impunito di decine di anni “prescritti” anche grazie ad una serie di interventi “ad personam” che il sig. Silvio Berlusconi ha magistralmente messo in atto durante gli anni del suo Governo.
Facendo due semplici calcoli allora, sarà facile comprendere che “l’evasione di pochi milioni di euro” asserita dalla Carfagna non corrisponde al vero, dacché l’ammontare “noto” evaso ammonterebbe già a centinaia* di milioni di euro, per i quali gli onesti contribuenti italiani non verranno sollevati mai di un centesimo.

(*ma io non ci credo) – cit

La terra dei cachi

«O la politica è capace di trovare soluzioni capaci di ripristinare un normale equilibrio fra i poteri dello Stato, e nello stesso tempo rendere possibile l’agibilità politica del leader del maggior partito italiano, oppure l’Italia rischia davvero una forma di guerra civile dagli esiti imprevedibili per tutti»
Sandro Bondi

Titolo questa breve nota “la terra dei cachi” perché non trovo definizione migliore per una nazione che consente cose così esilaranti da superare il grottesco fino a cadere non solo nel pessimo gusto, ma peggio nel reato però “concesso”, permesso e legittimato da una presunzione di libertà che come la giustizia pare non essere uguale per tutti.
Entro nel merito e mi spiego.
Solo pochi giorni fa sono state eseguite perquisizioni a tappeto tra i membri dei NO TAV, perché considerati, tutti, più o meno indistintamente “pericolosi e eversivi”; la logica delle perquisizioni a tappeto non mi piace e non mi piacque la decisione di tacciare di pericolosità ed eversione indistintamente un movimento che ha delle rivendicazioni fondamentali e vitali [che riguardano il destino di un’intera vallata con la sua comunità di persone (PERSONE, ESSERI UMANI)] da porre sul campo, senza essere – peraltro – ascoltato; pur tuttavia in nome della giustizia e della legge e della stabilità dello Stato, si è deciso di perquisire e tenere sotto stretto controllo ogni atto di possibile o presunta eversione del movimento su citato.
Ed è un fatto di cui si prende atto.
Quanto non torna in merito all’eversione e alla pericolosità sta dunque nella diversa posizione e nel diverso atteggiamento di “rimprovero” ma di tolleranza estrema nei confronti di Membri delle Istituzioni che, dinanzi a una sentenza in terzo grado della Cassazione, che riguarda un leader di partito, un imprenditore, un ex Presidente del Consiglio di questa stessa nazione, si possono permettere di definire il condannato in questione come “perseguitato dalla giustizia” e meritorio di “Grazia”, minacciando e paventando peraltro in caso contrario alla concessione della grazia, la possibilità di una guerra civile.
Non è eversione? Non c’è pericolosità e danno in queste parole?
No, ma c’è di più: oltre alla gravità di queste affermazioni c’è la comicità della provenienza delle stesse, che non finisce mai di stupire e di superare se stessa.
Già, perché le parole riportate in apertura di questa breve nota, sono state proferite da quel Sandro Bondi che ha guardato impassibile sgretolarsi secoli di storia tra gli scavi di Pompei, ed è lo stesso Sandro Bondi poeta dal cuore tenero che si commuove scrivendo l’ode a Donna Rosa, nonché lo stesso Bondi che non brandirebbe mai un’arma per difendere nessuno, men che meno se stesso, dacché se solo gli facessero “bù” all’orecchio, tremerebbe come un budino di crema pasticcera. Dunque c’è da chiedere al sig. Bondi: “ma lei chi manderebbe a far la guerra pel su padrone?”, quale figlio di mamma dovrebbe difendere un evasore in nome della vostra libertà di stravolgere le Istituzioni a uso e consumo dei malfattori?
E’ mai possibile che l’Italia si sia ridotta a questo? E’ mai possibile che questo popolo possa insorgere per difendere un delinquente evasore, conclamato tale non da me, ma dalla Cassazione? E come è ancora possibile che questo stesso popolo sia stato così ottenebrato da sopportare, ma peggio SUPPORTARE per vent’anni, 20 lunghi e passa anni, lo sfacelo delle sue Istituzioni, della sua cultura, della sua stessa educazione al bello, all’ironia, al rifiuto del grottesco, e ancora peggio alla sua storia?
Sì, è possibile.

da “lettere a Marosia” – #1

[…]
Sono stata a Milano la settimana scorsa, c’era un’afa infernale e zanzare grosse come elicotteri.
In vero Milano l’ho amata da ragazza, negli anni dell’Università in cui l’ho vissuta sentendo di appartenerle nel profondo. Ma le città sono come i grandi amori, una volta che si incrina il rapporto resti ancorato al ricordo, all’immagine che avevi di te nel suo grembo e quando ti rendi conto che l’immagine ha un altro aspetto, allora ne senti profondo il disagio, irrimediabile la “disappartenenza”.
Però la pioggia improvvisa sa lavare via ogni cosa, rendendo magico tutto per un istante in equilibrio.
[…]

“poesie per Francesco e altre cose”

I.

Dunque ti dicevo, amico caro,
che la neve qui non arriva a gelare il mare
e la pioggia si fa densa come si conviene
alla lentezza di una danza che inzuppa
le fosse le offese le parentesi quadre
delle mie incertezze.
Poi allora e ancora, ti direi, mio caro
quanto senza te non avrebbe più senso
il giorno e la tua lotta, la malattia,
l’offesa di una società maldestra,
dimentica, nell’agonia lenta,
che tutto lecita senza riservo,
e ti dicevo – amico sempre caro –
quanta sofferenza l’assenza di giudizio
come mi hai insegnato
nel prendere posizione pagando il dazio
della colpa e del peccato
della libertà di pensiero.
Nulla mi è stato dato di più prezioso
che il conoscermi davvero
e un paio di ali per volare in cielo
e da lì guardare il mondo con distacco,
niente mi è stato dato di più vero
di una mano per dirmi: “vola”
e del silenzio paterno che indica senza consiglio.
Dunque amico mio, questa buonanotte
arriva adesso come ouverture di una quieta
forma di giudizio, una rassegnazione consapevole
alla solitudine del mondo
che nulla mai potrà levare o aggiungere
alla serenità del tuo passaggio
nel mio cuore.

la vallata di Cheng

“Ecco, vedi? Questa è la vallata di Cheng”

Il tempo di vederla appena che già mi svegliavo.
Era una distesa immensa, ordinata e regolare,
degradava lentamente in una conca che dava l’impressione di essere sconfinata e aperta,
sebbene apparisse inconfutabile come certezza
che fosse cinta da un abbraccio di montagne di cui si percepiva la presenza
come qualcosa di imponente ed evanescente nello stesso tempo,
sì da non limitare lo sguardo di questa visione a perdita d’occhio.

A coltivare la vallata era un vecchio, Cheng, appunto.
La indicava con la serenità con cui si mostrano le possibilità dell’infinito.
Sorrideva senza sorridere
con una leggerezza consapevole, priva d’orgoglio, senza possesso.
Una straluntata pacatezza perdurò al mio risveglio.

citazionismo ed esempi di rara umanità

beh, alcuni mi regalerebbero la playstation, pensano che io valga meno di un cane e mi prenderebbero a calci in culo.
I poeti, si sa, godono di una rara riserva di umanità, salvo poi citare “Dave” – come fosse un caro amico – all’occasione, senza considerare che un suicida schifato del/dal mondo (letterario e non) quale “Dave”, come minimo si rivolterebbe nella tomba sapendo di esser tirato continuamente in ballo da certi polipi della letteratura.

apprise par cœur

“La paura è il sentimento che più ci spaventa”

capisco che letta così possa apparire una frase scontata e sciocca, ma non lo è se ci soffermiamo a pensarci su senza preconcetti, con la semplicità delle parole.
In fondo non c’è nulla di più tremendo dello sgomento che la paura incute. E la somma paura è il trapasso, il distacco, la lacerazione del sé pensante dal suo corpo.
Cos’è poi la morte se non la scissione, il lascito, l’assenza di pensiero, la perdita di una vita learnt by heart, apprise par cœur?
La mia memoria.
L’idea di vivere la paura del distacco è la peggiore punizione che l’esistenza per natura impone. Forse per questo bisognerebbe imparare ad amare la paura,
renderla una bestia in petto,
meta e cammino, ruggito interno,
dolore dolorosamente delicato, frescura di membra, incendio d’ossa
per congiungersi alla fine del travaglio a un nuovo lascito di luce:
la dipartita.
Dacché lasciare, partire, andare via sono sinonimi che presuppongono sempre l’estremo saluto, quello senza ritorno.
Eppure quanta delicatezza, quanto pensiero e quanta cura rimangono. Quanto?
Solo facendone dolorosa coscienza, amatamata generosa incoscienza che rimane e va oltre noi, solo facendo della paura questo panno assorbente di accoglienza e distacco, ogni nostro timore non potrà far tremare più dell’eredità di noi come traduzione di fiato e significato.

Eterea immanenza, flagranza di reato.
Remissione di colpa.
Rimpianto.

cry wolf

delicatezza ferale, mia bestia
fiorisci al centro, grancassa d’ossa.
diaspora in vita, germoglio di morte
raccogli in autunno i capelli in_terra
(un mazzo di viole, incenso, ginestra)
rammentino un pianto purché non si senta:
Indaco dei mattini, mia inaudita violenza
di gioia partorita ricomponimi l’ossa
poi resta un istante e ancora un oltre
il tempo necessario perché io sia niente

tu non dargli mai quel nome

Si chiamava Carlo anche il mio Carlo
diciassette anni e un colpo di fucile da sotto il mento
il giorno del funerale la chiesa era piena di dolore
un dolore giovane, un’intera generazione

sono passati ventiquattro anni dallo sparo
la metà per l’altro Carlo, quello di tutti
quello che gli intitolano una piazza
per cancellarne la macchia dalla coscienza di Stato

Passano gli anni, aumentano i vuoti
di Carlo in Carlo, di gioia in dolore.
Se nasce un figlio tu non dargli mai quel nome
non dargli neanche il mio qualora fosse una bambina

questo mondo si apre e si chiude
nel vagito di un travaglio interiore
e a nulla importa chi mantenga la traccia
l’ombra veritiera di una vergogna, di una memoria.

#10 – Era l’unica cosa da fare

Era l’unica cosa da fare”, ripeteva tra sé, stringendo i lembi del cappotto sul petto. Non aveva mai creduto alle cose durature, all’eterno manco a parlarne, ma non riusciva a dimenticare quel volto, quello che avrebbe dovuto cancellare col suo solito cinismo.
La stagione delle cose passate, quella degli ideali per cui lottare si era spenta dentro il suo sguardo cupo, che a guardarlo bene fino in fondo, rifletteva un abisso di paure e rimpianti infantili, che solo gli abbandoni ingiustificati possono generare.
Aveva visto disfarsi ogni angolo dalla casa. La famiglia sgretolata dai suoi errori. I suoi errori erosi dall’amore morboso di una borghesia esistenziale che lo voleva incastrare.
Come si nasce anarchici?”, si chiedeva.
A ben vedere è un dato esistenziale”, diceva.
Genetico”, gli avrei voluto suggerire, tuttavia l’aggettivo che avevo scelto cozzava, ingiustificato, con la postura perfettamente adagiata all’equazione sociale che la sua famiglia aveva sempre espresso, godendo del rispetto e della stima di tutto l’apparato partitico e familiare di quella città così piccola e tanto stretta da farlo soffocare.Continua a leggere…