*la perizia della felicità
ha la dolcezza dell’indulgenza
quando traduce l’ozio in negligenza*
La fortuna più grande che mi sia mai capitata si chiama “carcinoma”, più comunemente inteso come “cancro”, ma non userò più questi due termini perché, di solito, turbano la sensibilità di chi li legge, dunque chiamerò la mia fortuna “malattia”, “sofferenza”, “calvario”, “dolore”, in poche parole “rinascita” o anche, zambranianamente, “desnacimiento”.
Non si parla a caso di rinascita, come non parlerò a caso di travaglio. La sofferenza è principio primo di luce, ci accompagna alla luce, è fonte primaria della venuta al mondo:
nel primo pianto risiede tutta la gioia responsabile dell’affacciarsi alla vita.
Ed è così che ho vissuto questo ultimo anno di gestazione e travaglio, riformandomi e plasmandomi di giorno in giorno alle cose di ogni giorno, alla conquista della primordiale luce quotidiana, che l’ignoranza della morte offusca a chi non sa di avere giusto il tempo per dirsi vivo.
Mi sento un fiore,
sono un fiore che ogni giorno sboccia
e sboccia e sboccia, giorno dopo giorno
senza lungimiranza o desiderio
che valga un solo mio istante d’esplosione
di profumo e di colore.
Non ho tempo perché non mi chiedo tempo, sono tempo nella misura in cui vivo il tempo, dunque mi vivo istante per istante, con la gioia che lacera l’intensità dell’unica certezza. E non c’è nulla di mistico in tutto questo, ma un’allegria tutta immanente, un gesto di pace che si raccoglie in tenerezza.