
1.
Vorrei che la parola fosse un corpo freddo | da osservare col distacco della morte, | un’estrema forma d’arte inchiodata al muro, | alla carta, | alla parete delle ossa; | scoprire nello sguardo di chi legge lo stesso cinismo che muove le dita, | quella furia fredda e calma, ossessiva e maniacale, di amare le cose fino a vederne la loro lenta distruzione. || Sarebbe tutto quello che resta, | la parola-reliquia delle ossessioni che l’hanno scomposta, | una morte fissa che sconfigge la vita nel suo finire. | L’ultimo possibile atto d’amore. ||
2.
L’attitudine a far perno su ogni particolare | che inceppi la lingua dove il dente duole | ha un non so che di amorale | come tutto ciò che fa dell’arte una pura fissazione. | Si è parlato di “distrazione” centrando l’oggetto dell’agire intorno alla parola che divide, frammenta e spezza la sequenza logica dell’azione. L’assioma del filologo dal centro parola si allarga a raggiera, comprende l’opera dal basso, come il tonfo di un sasso comprende l’inquietudine dell’acqua nella sua postura fintamente statica, che pure illude con apparente fermezza lo stato di attesa preesistente all’azione posta in arte, come tuffo en abîme che si rinnova in superficie con l’argomentazione di un diapason d’acqua.
3.
Non splende “aura” alcuna?
Non si potrà negare che la disconnessione aprioristica degli elementi dall’insieme non presuppone affatto una randomizzazione degli stessi in un aggregato a caso. Qualunque elemento si collochi nel divenire dell’intento logico del dire, ha sua dignità espressiva a prescindere dal contesto in cui si muove, ma al contempo inscindibile dalle correlazioni storico-letterarie e sociali in cui si muove l’ autore. La negazione dell’interazione degli agenti esterni ed interni all’arte stessa, si fa oggetto di indagine scientifica che viviseziona, ma non funziona.
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