isn’t it romantic?

Dunque un giorno ho scoperto di essere diventato romantico senza passione, senza alcuna privazione, freddamente attonito nell’atto di guardare, ascoltare tutto ciò che mi circonda con un’attenzione maniacale per il dettaglio, l’espressione, l’accento di una nota capace di attanagliarmi alla gola.
Ci sono tanti modi per schiaffeggiare la felicità, il disincanto acquisito con dovizia di dolore aiuta ad arrivare a quello stadio di distacco necessario e totale da qualsiasi emozione.
Chiamo questa mia nuova in_esistenza “la mia fertile aridità“, un ossimoro banale in fondo, come la vita al fondo. Dunque sorrido tanto.
Peggio di così non può andare“, mi ripeto, e anche se già mentre lo dico so che non è propriamente vero, mi piace conservarmi la speranza che si mantenga almeno questo poco meno di uno zero.
A trenta gradi con un tasso di umidità sostenuto si può anche testimoniare una negligenza di fronte alla vita, come una volontà di rifiuto davanti a qualsivoglia stupida incertezza.
Si potrebbe dire saturazione, come quell’eccesso di colore che deforma fino a cancellare il tratto veritiero di un istante fissato e morto al momento dello scatto.
Però è così romantico, così romantico questo momento e il suo tragicomico silenzio, che quasi mi sembra di star bene come sono.

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#10 – Era l’unica cosa da fare

Era l’unica cosa da fare”, ripeteva tra sé, stringendo i lembi del cappotto sul petto. Non aveva mai creduto alle cose durature, all’eterno manco a parlarne, ma non riusciva a dimenticare quel volto, quello che avrebbe dovuto cancellare col suo solito cinismo.
La stagione delle cose passate, quella degli ideali per cui lottare si era spenta dentro il suo sguardo cupo, che a guardarlo bene fino in fondo, rifletteva un abisso di paure e rimpianti infantili, che solo gli abbandoni ingiustificati possono generare.
Aveva visto disfarsi ogni angolo dalla casa. La famiglia sgretolata dai suoi errori. I suoi errori erosi dall’amore morboso di una borghesia esistenziale che lo voleva incastrare.
Come si nasce anarchici?”, si chiedeva.
A ben vedere è un dato esistenziale”, diceva.
Genetico”, gli avrei voluto suggerire, tuttavia l’aggettivo che avevo scelto cozzava, ingiustificato, con la postura perfettamente adagiata all’equazione sociale che la sua famiglia aveva sempre espresso, godendo del rispetto e della stima di tutto l’apparato partitico e familiare di quella città così piccola e tanto stretta da farlo soffocare.Continua a leggere…

#9 – i giorni perfetti

“Dove vanno a finire i personaggi di un film ancora da girare? Qualunque pellicola immagini, l’umano è sempre in agguato con le sue gabbie da raccontare.”

Davide sapeva che non poteva tornare, la scena era ormai cambiata, il regista gli stava riscrivendo ruolo e partitura. La sua canzone tra memoria e compiacenza avrebbe dovuto occultare la scena precedente in una pozza di sangue, ma il sangue di Elvira aveva una dolcezza particolare, che s’intonava all’incarnato bianco, facendo risaltare la passione in un balbettio di reminiscenze.
Elvira aveva portato a termine i compiti, chiarito la sequenza delle scadenze.  In poche parole la madre era soddisfatta, era riuscita nel suo borghese intento di incastrare la figlia nel ruolo anonimo del suo salotto: un personaggio scomodo come Davide non avrebbe più dovuto varcare la soglia delle fantasie della sua prediletta complice di ruoli e reclusione. “Davide doveva evaporare”.

Ma la staccionata oltre cui saltare per correre fuori dal bosco fin dentro i chiari profondi della luce che filtra i rami, era un lavoro sottile che solo il libro di una matta filosofa spagnola poteva indicare.
Fu così che Elvira sopravvisse nella sua pozza di sangue, dentro quella scena occulta e tragica, che all’ora dell’alba spezzò gli equilibri fragili della mente malata della madre. Non avvenne così il suicidio, non avvenne neppure l’omicidio, non realmente s’intende.Continua a leggere…

#8 brevi sceneggiature

La cura del dettaglio gli richiese una lunga scenografia meditativa. In fondo sapeva bene l’orgasmo segreto e intimo delle plausibili possibilità, che il vaglio minuzioso di ogni scarto di luce e ombra, di ogni parola, di ogni impronta, oggetto, traccia, lasciata e disseminata quale volontario e cosciente indizio, avesse la sua fondamentale importanza per l’esatta riuscita dell’uscita di scena: una caccia al tesoro, un gioco bambino di tenera crudezza, puerile cattiveria.
Dipartire in fondo è come punire, è chiudere la coscienza dell’altro dentro lo sgabuzzino buio dei peccati e dei ripensamenti: una sorta di omicidio sottile. Crudele.
Prevedere tutto o, per lo meno, illudersi di saperlo fare, era l’eiaculazione cerebrale che lo accompagnava nella consapevolezza mista al compiacimento del dolore proprio alla ragione.
I suoi pensieri si sedettero dinanzi allo scrittoio che non fungeva da scrittoio, con le mani che reggevano le tempie, il viso basso a fissare il legno. Ogni scena delineava un’espressione sorda: capitolò un sorriso, seguì una lacrima.
Non si pentiva di saper piangere, anche se lo nascondeva per pudore, con la consapevolezza che la forza di quel gesto così intimo, nelle prime ore dell’alba, avrebbe rintuzzato il ticchettio del tempo, rendendolo qualcosa di presente ed estraneo, cui comunque avrebbe dovuto decidere di dar conto.
Vagliava il caso, senza lasciare che nulla gli appartenesse realmente.
Finché la luce non si fece ferita netta tra le tapparelle e il ripiano su cui aveva giocato la sua immaginaria dipartita, ricordandogli che era tempo di sbarbarsi, indossare il volto d’occasione e rimandare alla prossima intimità la continuazione della sceneggiatura della fine. –

7# Gloomy Sunday

Vorrei appendere tutti i miei volti a scolare l’acido che la delusione ha inciso nel mio sguardo. Guardami col distacco della leggerezza prendere forma nell’immagine di me stesso, con tutte le sbavature di una nuova consapevolezza. Essere l’osservazione fredda del dolore che concepisce se stesso nell’arte della separazione, l’abbandono prepotente di me a ogni cosa: un incanto.
Ci saranno letti di viole, mille quadrifogli a segnare la fortuna che non ho posseduto, parole bambine e stecchi di zucchero filato.
Il paradiso a mezzo fiato, il purgatorio purgato.

Sognando, stavo solo sognando, Gloomy Sunday.

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#6 la madonna nera

Santuario di TindariNon so esattamente cosa mi spinse ad addentrarmi in quella terra arida, così diversa dal biancore della mia pelle tutta imbibita di cortisonici, ma fu la prima cosa che feci appena uscito da quel ricovero forzato. Ne avevo sentito parlare in quei giorni di degenza come meta per i pellegrini in cerca di grazia, tuttavia, la ragione del mio viaggio aveva radici diverse dalla necessità d’intercessione col Padreterno e dalla fede, che peraltro non mi avrebbe mai illuminato. Ciò che mi incuriosiva al punto da decidere che sarebbe stata la prima cosa da fare con ancora il bagaglio appresso e l’odore di anestetici addosso, era l’idea della spiaggia sotto la rupe su cui capeggiava l’immaginetta di una madonna nera con le braccia aperte e uno sguardo triste, che mi aveva mostrato un compagno di stanza nell’ora del suo quotidiano recitare vespertino. Era un uomo mite, silenzioso, di una fede riservata e misteriosa, poco invadente, rara in questo senso. Ne percepivo il pregare a voce soffocata, rotta dentro un silenzio fatto di sguardi e paure, ma anche di speranze cui aggrapparsi tenacemente.
Così appena presi il primo respiro d’aria sufficientemente profondo da risvegliarmi polmoni, odori, pensieri e rimettere insieme obiettivi e ricordi, decisi che per prima cosa avrei imbucato la scorciatoia sulla destra dell’Ospedale Civico, che mi avrebbe condotto, su indicazione di un solerte infermiere, direttamente nella traversa alle spalle della Chiesa Maggiore, dove avrei trovato la sede di una piccola agenzia viaggi che, nonostante la crisi di settore, continuava a vivacchiare organizzando piccoli tour con mezzi di trasporto sgangherati nelle zone limitrofe alla città: due famose mete di svago e una destinata al pellegrinaggio di fede e dolore. Non appena varcai la soglia della MFTA, Manitta e Figli Travel Agency, un piccolo tugurio a gestione familiare, la mia attenzione fu subito rapita dalla voce di un vecchio barbuto che, dalla stanzetta sulla destra della biglietteria, urlava prendendo accordi telefonici di orari e partenze conditi da insulti e benedizioni. Solo in seguito notai una giovane donna corpulenta e priva di espressione che, chiusa nel gabbiotto a vetri della minuscola biglietteria, chiedeva meccanicamente quale fosse la destinazione del viaggio, riferendo costo e orario di partenza, arraffando avidamente i soldi e restituendo il resto senza aggiungere una parola o un sorriso, che rivelasse un minimo di umana partecipazione all’azione che svolgeva.Continua a leggere…

#5 il corridoio

La sequenza dei numeri disposta sui due lati opposti –  pari a destra, dispari a sinistra, presupponendo un verso di attraversamento che si inverte, ovviamente, se si procede al contrario – si mescolava all’odore della moquette che aveva il compito di assorbire i passi degli ospiti celandone le rispettive esistenze e i loro movimenti in entrata e uscita dalle porte numerate di un alberghetto a tre stelle, tra l’incrocio del vialone che conduce alla Chiesa Maggiore e il largo di Piazza Stazione. Il senso ovattato delle possibilità nascosto dentro il silenzio delle quattro mura, esercita su me un fascino peccaminoso e promiscuo nella fantasia degli ignoti possibili incontri. I luoghi di passaggio sono un guazzabuglio emotivo, carico di vita, di pulsioni. Nel percorrerlo con in mano il portachiavi d’ottone a forma di campanella piena, silenziosa, che al posto del vuoto e del battente ha un numero inciso che decreta che dormirò a sinistra, nella stanza cinquantasette, penso all’ammasso di vite in movimento, in continuo passaggio che abitano temporaneamente quel crocevia di corse e pelli e dita e mani che aprono maniglie, ripongono i soprabiti negli armadi freddi con tre grucce appendiabiti quale unica terna di possibile scelta per non spiegazzare i vestiti migliori ammassati nella valigia. Attraverso il corridoio annusando come un segugio tracce di quelle esistenze, scie di odori vivi di carne, di donne, di uomini prevalentemente. Continua a leggere…

#4 Europa

Nell’aria si respirava il canto di una guerra antica, Europa era una fanciulla vecchia con occhi avidi come la fame e una bocca stretta sul silenzio dei suoi peccaminosi errori. Se ne stava seduta all’attracco numero zero del porto di una Cipro in rovina, presidiata agli angoli delle strade. I gomiti poggiati sulle ginocchia reggevano avambracci e mani, su cui dondolava un viso mesto che osservava l’abisso dei colori del suo mare. Le si avvicinò un uomo sulla sessantina, aveva un’anca offesa, secca e corta e un bastone per equilibrare l’andatura claudicante; era vestito bene: doppiopetto scuro, camicia celeste, cravatta scura come il pantalone appaiato alla giacca. Lasciava una scia di profumo forte, che in un primo momento si inspirava con il piacere di qualcosa di buono, da contrapporre al pessimo gusto che la lingua percepiva nell’aria di terrore e protesta che avvolgeva la  città intera, Continua a leggere…

#3 il vecchio salice

Non sono certo che fosse un sogno. Ci sono stati di coscienza illuminati dalla grazia in cui la consapevolezza di sé si perde e trasmigra oltre le grida del presente, al di là dell’orizzonte. C’era un tronco attorcigliato di radici rugose, mi è impossibile dire precisamente quale fosse il numero esatto delle sue braccia, alcune forti, altre esili appena ingemmate. Le foglie come piume, le radici come grosse cosce muscolose, salde, pronte allo scatto come le gambe di un atleta immobile sulla pista in attesa dello sparo. Continua a leggere…

#2 l’aragosta

Nel capitolo precedente ho detto “mi rifiuto”
C’è un dannato senso di libertà in questo silenzio scritto di nascosto, un’anarchia pulsante e vitale nella mia autodistruzione.
E’ come una risata profonda sulla mediocrità che mi strappo di dosso con le unghie, a mani nude.
Sudo. Fa freddo, sudo. Scrivo necessità e bisogni, pulsioni semplici e animali. Paure e alambicchi per cancellare il terrore. Sono un contrasto che si va spegnendo, la fredda superiorità del cervello che osserva la bassezza di quanti mi hanno messo le mani addosso: Continua a leggere…

#1 un tempo

Non permetterò più che i miei versi siano letti. Un tempo ci fu più d’uno che riferendosi a me, mi appellò poeta. A dire il vero qualcuno lo fece con cattiveria, con ironia sottile, i meno con slancio, pochissimi con sincero amore.
Non mi sono mai nominato tale, ho sempre pensato a me stesso come esigenza di memoria e traduzione del tempo in scrittura.Continua a leggere…