#2 l’aragosta

Nel capitolo precedente ho detto “mi rifiuto”
C’è un dannato senso di libertà in questo silenzio scritto di nascosto, un’anarchia pulsante e vitale nella mia autodistruzione.
E’ come una risata profonda sulla mediocrità che mi strappo di dosso con le unghie, a mani nude.
Sudo. Fa freddo, sudo. Scrivo necessità e bisogni, pulsioni semplici e animali. Paure e alambicchi per cancellare il terrore. Sono un contrasto che si va spegnendo, la fredda superiorità del cervello che osserva la bassezza di quanti mi hanno messo le mani addosso: accarezzandomi, usandomi, appellandomi, insultandomi, denigrandomi.
Ora vado morendo, mi accingo, mi lascio andare lentamente, senza dolore. L’estremo piacere è scrivere quotidianamente la mia fine dentro i loro nomi, con i loro occhi, con le loro lingue, con il loro insipido sapore, fino all’ultimo secondo.
Ci sono visioni di paradiso, ci sono momenti di beata bellezza in questo distacco pacifico con me stesso.
Penso con noia a quanti parlano del mio male, se lo dicono all’orecchio durante le festicciole “lo sai che tizio? sì, sì,  pare sia grave”, o per e-mail, mentre con un buonismo merdoso si augurano il mio bene, sperando nella pronta notizia della mia morte.
Avranno quello che vogliono, resteranno nella loro dorata mediocrità sorridendosi a vicenda.
Guardarli dall’esterno ha il sadico retrogusto di un’aragosta prelevata dall’acquario di un ristorante alla moda: la mano penetra l’acqua, prende l’animale, vivo lo ripone in acqua bollente, poi lo serve:
è un rituale mistico gustare a crudo la morte.

Es

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